Teatro

Special Fringe - Penelope, ovvero la guerra infinita

Special Fringe - Penelope, ovvero la guerra infinita

Dopo l'anteprima al Kunsthaus Tacheles di Berlino il 5 dicembre 2009, giunge al Fringe la Penelope in Groznyj di Marco Calvani, ovvero la trasposizione del mito omerico nella Cecenia di oggi, e dire Cecenia è una garanzia di pensiero che va alla guerra, alla tortura, ad esecuzioni sommarie e corruzione diffusa: un vero terreno di conquista, per ciò che il male rappresenta in un immaginario collettivo che tuttavia, dalle nostre parti, forse è già dimentico della memoria che accomuna qualunque popolo abbia attraversato nella sua storia una simile sventura. E già questo potrebbe essere un motivo sufficiente per accogliere una memoria come questa.

Già entrando in sala si incontrano, in platea, figure che si aggirano come fantasmi, così come accadrà spesso con ingressi ed uscite che adoperano spesso lo spazio tra gli spettatori per sparire e riapparire, portando in alto e quasi trascinando perciò fisicamente sul palcoscenico le scene di ordinaria disperazione di chi ha il problema di trovare ogni giorno da mangiare, come in ogni guerra.

Fra gli altri, si alternano e si sfidano, anche come personaggi contrapposti, un Telemaco molto combattivo (“Noi sappiamo perché stiamo combattendo”), una Euriclea rassegnata alla mera sopravvivenza (“Questa è una guerra cattiva, non è come le altre, qui ognuno è contro tutti, e nessuno è con noi”) ed una splendida Elena che tenta (inutilmente) di sovvertire i ruoli di vincitori e vinti.

Ed è davvero un Caucaso che soffoca nella disperazione, quello di Calvani, nel quale i Proci hanno la faccia cinica delle figure di Autorità, quelle che mascherano i suicidi dei propri soldati con la formula “attacco cardiaco”, e pasteggiano e discutono attorno ad una tavola su cui giace una donna qualunque, svenuta, che scopriamo poi essere Penelope, deportata in un cosiddetto “punto di filtraggio temporaneo”, moderna versione di una camera di tortura nella quale subito si centra l'intera scena, per non uscirne mai più.

Questa è però anche la nota che sa di eccesso, sebbene di certo concepita appositamente con un forte senso claustrofobico: le scene dentro quello spazio, angusto quanto ineluttabile, sono rappresentate con una crudezza estrema ed una certa veridicità, anche attraverso una molteplicità di corpi quasi sempre nudi e straziati non comune, e con un susseguirsi di movimenti striscianti che probabilmente tendono ad elevare il senso di pesantezza e di angoscia.

L'accostamento con Pasolini, evocato nella presentazione del lavoro, può stare forse nel senso del macello, dell'orribilmente e lucidamente sporco, e della Divina Ingiustizia che colpisce i vinti, anche se Penelope, archetipo di donna prima che di moglie, e di mortale prima che di tessitrice, vive rinchiusa ma non definitivamente vinta nella dignità, grazie alla sua possibilità di esistere nonostante tutto, creandosi tale medesima possibilità “tessendo”, ovvero dando un senso al tempo, ed una continuità, un’immortalità, al tempo stesso.

Nel finale, il Boia ed i corpi esangui formano un unico balletto degno del psicosociopatico Alex di Arancia Meccanica, reso ancora più evocativo grazie alla scelta della colonna sonora: il Valzer dei fiori – la suite dallo Schiaccianoci di Cajkovskij – nella quale trionfa una follia collettiva della guerra che travolge ogni residua dignità.